In morte di Enzo Bearzot

Il Vecio si spegne a Milano, il 21 dicembre 2010.  "Un uomo serio. Un uomo onesto. Un uomo leale. Uno che dava e chiedeva rispetto. Un uomo sincero. Un secondo padre (per Zoff, Conti, e anche per Rossi). Un uomo di frontiera. Un uomo che credeva nell' amicizia e nel sacrificio. Un uomo di sport. Un maestro di vita. Un uomo colto. Un uomo chiuso a riccio (ma neanche tanto). Un uomo aperto (ma solo quando si fidava). Un uomo d' altri tempi, purtroppo sì, ma ancora capace di districarsi a fatica nei nostri. Un uomo in guerra contro la volgarità, il chiasso, il luccicante vuoto" (Gianni Mura)


Mario Sconcerti

Enzo Bearzot ha allenato soltanto la nazionale. Credo sia un caso unico. Era uno dei tecnici federali guidati da Ferruccio Valcareggi. Fece una stagione al Prato in serie C, poi solo Coverciano tra Under 23 e nazionale maggiore.

Il suo calcio di base era ancora profondamente italiano, cioè con il libero, il tornante e due mediani universali in mezzo al campo, ma Bearzot aveva un vantaggio straordinario su tutti gli altri tecnici di professione: girava il mondo a veder partite, di mestiere faceva in pratica quasi soltanto quello. Non c' erano allora le televisioni di adesso, non si poteva vedere nemmeno un minuto di diretta del campionato italiano. La Champions era per una sola squadra, le partite delle altre nazionali una merce clandestina. Bearzot era fra i pochissimi a poter leggere calcio diverso, a poterlo vedere. Erano gli anni di grandi rivoluzioni. Prima Herrera aveva portato il calcio all' italiana alla sua massima produttività e alla qualità migliore, poi arrivò il tempo del calcio olandese. Infine la grande stagione dei club inglesi. Bearzot vide tutto, divenne uno dei massimi esperti al mondo. Aveva dentro di sé immagini e note che nessun altro poteva avere. E aveva la sensibilità per gestirle.

Era un friulano duro e nostalgico, intransigente e sentimentale, la vita non gli scorreva davanti inutilmente. Sapeva capirla e tirare conclusioni. Il nuovo del calcio mondiale dentro di lui si mescolò alla sua ruvidità di vecchio mediano granata e alla fedeltà alle tradizioni. Non nacque un nuovo calcio, non avrebbe nemmeno potuto. Bearzot era un commissario tecnico, dirigeva una nazionale. Selezionava, non allenava. Non poteva inventare niente. Nacque però un concetto diverso di nazionale, molto più aperto, fuori dagli schemi del campionato, basato soltanto sulla qualità tecnica dei giocatori, sul loro senso di rispetto e di squadra. Non aver allenato nessuna squadra lo toglieva dalle piccolezze del quotidiano, Bearzot giocava solo partite importanti, aveva solo un grande destino. Questa diversità finì per assecondare la sua vocazione all' isolamento. Aveva intuizioni finissime, conosceva tutto, ma è sempre rimasto fuori dalla discussione, quasi al di sopra.

Ha vinto il suo Mondiale ventisette anni fa, era ancora giovane, ma è stato di colpo cancellato dopo la prima sconfitta. Per lui niente convention aziendali sulla gestione del gruppo o pubblicità in tv. Nemmeno una parte del ruolo da grande patriarca che gli spettava di diritto. Fu messo in un angolo quasi con avidità.

 
La sua mossa più audace e riuscita fu in finale con la Germania. Si era infortunato Antognoni, il regista avanzato dell' Italia. Bearzot lo sostituì con un terzino di 18 anni, Bergomi. A centrocampo avanzò un altro terzino, Cabrini. Fu una squadra di terzini ma non se ne accorse nessuno. Lui però sì: era orgoglioso di aver fondato una nazionale di eclettici. Capì di aver vinto giocando all' italiana. Alzò il bicchiere e brindò.

"Corriere della Sera", 22 dicembre 2010