In morte di Rinus Michels


Corrado Sannucci
Addio rivoluzionario Michels: inventò Cruyff e il calcio totale
"La Repubblica", 4 marzo 2005

Lo choc provocato dalle idee e dall'Ajax di Rinus Michels è stato così profondo e duraturo che ancora nel 1999 la Fifa lo aveva eletto "Allenatore del Secolo", un titolo che altri potevano pretendere a maggior ragione, in tanti più di un coach che in fondo aveva vinto solo una Coppa dei Campioni nel '71 e un Campionato Europeo nell'88. Ma l'esplosione del calcio olandese agli inizi degli anni '70, quel mescolare talento, anticonvenzionalità e disciplina, quell'aderire allo spirito del tempo - una squadra di capelloni che giocava con la filosofia collettiva di una comune hippy - è stata pensata, promossa, guidata, portata a maturazione da questo gentiluomo con la mascella dura e i capelli da marine, che poi gli avrebbero consegnato uno dei tanti soprannomi, il Generale. Una rivoluzione che inventò l'Olanda come un paese di grande football, che definì un nuovo tipo di gioco, il «calcio totale», e che sradicò abitudini e concezioni dell'allenare, dell'impiego dei giocatori in campo, della preparazione delle gare. 
Michels è morto a 77 anni ad Aalst, in Belgio, dove era stato operato alcune settimane fa per problemi di cuore. «Se n'è andato il padre del nostro calcio», lo ha pianto Van Basten. Ancora recentemente continuava a frequentare gli stadi, accolto da ovazioni, onorato come un dio della nazione, l'altro essendo Johann Cruyff, l'allievo reso grande dal maestro, a sua volta reso grande dall'allievo. Perché il grande merito, e la grande fortuna, di Rinus (all'anagrafe Marinus) Michels fu quello di incrociare due generazioni di talenti, quella di Cruyff, Neeskens, Keizer, Swart, alla fine degli anni '60 e quella di Van Basten poi alla fine degli anni '80, quando vinse il campionato europeo, nello stesso stadio di Monaco della delusione del '74, quando la più bella Olanda di sempre aveva mancato proprio la finale contro la Germania. 
Di tutta una carriera di successi, nei quali non mancavano la spavalderia olandese e un tipico e a volte arrogante tratto del carattere di quei giocatori, fu quella l'unica disfatta, non avere saputo vincere la partita che avrebbe sancito la perfezione del progetto. Michels, così attento alle dinamiche motivazionali e psicologiche della squadra, si era reso conto che la vittoria in semifinale contro il Brasile, un 2-0 che ultimava il trionfale cammino dopo il 4-0 all'Argentina e il 2-0 alla Ddr, aveva scatenato una convinzione di sé eccessiva e pericolosa, avendone già in buona dote naturalmente i suoi giocatori. Il gol segnato dopo 1' su rigore, dopo quindici passaggi, con la Germania che non toccò mai il pallone, fece perdere il senso della realtà alla squadra. «E poi ci scordammo di segnare il secondo gol», ammise dopo Rep. Fu la sconfitta della presunzione più che del calcio totale, perché quello ormai aveva abbagliato gli occhi degli spettatori e non sarebbe stato più dimenticato. 
Con il suo Ajax, del quale divenne l'allenatore nel '65, prendendolo alle soglie della retrocessione e portandolo subito a quattro scudetti, Michels presentò giocatori eclettici, straordinariamente mobili, al servizio di un'organizzazione precisa, dotati di una preparazione fisica superiore. Tutti potevano (e dovevano) attaccare e difendere, perché così il gioco era più offensivo, più vario, toglieva riferimenti agli avversari, divertiva di più i giocatori. «Non è difficile insegnare a un difensore ad andare avanti, ma trovare qualcuno che poi lo copra», diceva Michels. Si insegnava ai difensori che dovevano anche pensare offensivamente e agli attaccanti che dovevano anche prepararsi a difendere. Una necessità intercambiabile, dal momento che se «faccio 70 metri sulla fascia, poi prima che torno indietro serve che il mediano e l'ala scalino dietro di me», spiegava Krol, che in quella squadra faceva il laterale, e avrebbe finito da immenso centrale nel Napoli. 
Michels aveva ereditato, ma poi ulteriormente sviluppato, quell'idiosincrasia dell'Ajax per i comportamenti da superstar dei giocatori, aggiungendo una disciplina ferrea e una presenza ai bordi del campo imperiosa. «Qualche volta esagerava», lo ricorda Cruyff, che ha riconosciuto in lui «l'uomo che mi ha insegnato di più di calcio». Eppure questa disciplina immaginava un gioco spettacolare e fantasioso e, soprattutto, era capace di lasciare libero il talento dei giocatori, che si esaltavano nella intercambiabilità delle funzioni. 
Più tardi, nell'88, Michels avrebbe presentato una squadra più strutturata, che avrebbe vinto soprattutto grazie alle meraviglie di Van Basten, alla fisicità di Gullit e Koeman, alla duttilità di Vanenburg. Alcuni anni fa aveva scritto un libro sul mestiere di allenare: «Teambuilding, the road to the success», la costruzione di una squadra, la strada per il successo. Michels (altro soprannome: la Sfinge, per la sua impassibilità) è stato, se non il primo, tra i primi ad allargare la visione sul mestiere dell'allenatore, come figura che fissa responsabilità e compiti, che integra una squadra nella cultura generale del club, che sollecita e fa crescere qualitativamente la comunicazione all'interno del team. Costruzione che non è legata solo al gruppo presente ma va oltre e dura nel tempo, come ha dimostrato la straordinaria capacità dell'Ajax di rinnovarsi restando sempre ai vertici, anno dopo anno. Non a caso l'Ajax vinse altre due Coppe dei Campioni dopo che se ne andò al Barcellona nel '71, seguito presto da Cruyff con il quale avrebbe vinto la Liga nel '74. Nel '72 e '73 il coach fu Stefan Kovacs, che non sarà mai allenatore del secolo. 
Michels era stato centravanti, 121 gol in 269 match per l'Ajax, e cinque volte nazionale nella modesta Olanda degli anni '50. «Era un uomo duro e spiritoso, per lui eri pronto a dare tutto» lo ricorda Gullit. E di tutto questo, della rivoluzione e del calcio totale, chissà cosa avranno capito i Los Angeles Aztecs, che lo vollero come coach dal '78 all'80.