Edmondo Fabbri

Questa è la storia di un romagnolo, figlio di povera gente, ambizioso e testardo, con un carattere orgoglioso e volitivo che lo porta a voler fare sempre di testa sua, senza ascoltare i consigli di nessuno. Un provinciale partito dal niente che arriva in cima alla ribalta italiana sull'onda popolare, salutato e invocato come “l’uomo nuovo”, ma che al culmine della sua parabola, al passo decisivo verso la consacrazione in campo internazionale, va a sbattere contro i suoi limiti e quelli di chi lo ha seguito in quell'avventura. Si gioca tutto e perde tutto. Per sempre. Gli amici e gli estimatori lo abbandonano e a lui non resta che un'ultima, patetica, ridotta difensiva. Cosa avete capito? Stiamo parlando di calcio, per la precisione di Edmondo Fabbri. La sua è la storia di una sconfitta assoluta e di una sopravvivenza mutilata.

Il “piccolo Brasile”

"Topolino" al tempo del Mantova
Romagnolo di Castel Bolognese, in provincia di Ravenna, Fabbri era nato nel 1921, ultimo di cinque figli di un pollivendolo. Da ragazzo scopre il calcio e se la cava bene, tanto da arrivare a giocare in Serie A nell'Atalanta, nell'Inter, e nella Sampdoria negli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale. È un’ala veloce e guizzante, dal forte temperamento agonistico. Molto piccolo di statura, viene soprannominato “Topolino” e poi “Mondino”. Chiude con il calcio giocato nelle serie minori a metà degli anni Cinquanta al Mantova, la squadra dove farà anche il passo decisivo dal campo alla panchina. La carriera di Fabbri come allenatore comincia nel 1957 ed è fulminante. In soli quattro anni porta il Mantova dalla Serie D alla Serie A, dando spettacolo grazie a un gioco di altissima qualità. In quegli anni nel calcio italiano impera il catenaccio, soprattutto per le squadre di provincia, e quel Mantova rompe tutti gli schemi, affrontando chiunque a viso aperto sia in casa che in trasferta; è una squadra che gioca e diverte, tanto da essere ribattezzata “il piccolo Brasile”, una leggenda viva ancora oggi.

Nel 1961-62, la sua prima stagione in A, chiude al nono posto in classifica, precedendo anche la Juventus. Fabbri vince il Seminatore d’Oro, il premio destinato al migliore allenatore, e diventa a furor di popolo “l’uomo nuovo” del calcio italiano. È un momento magico per il piccolo romagnolo: ormai è un uomo di successo, sulla cresta dell’onda, tutti parlano di lui, tutti lo vogliono e anche Angelo Moratti, gran patron dell’Inter, mette gli occhi su di Fabbri, complice Italo Allodi, che ha già lavorato con lui al Mantova e ora è il general manager della formazione nerazzurra. L’accordo sembra cosa fatta, ma all'ultimo momento Moratti cambia idea e decide di dare ancora fiducia a Helenio Herrera. Intanto la nazionale italiana, reduce dal disastro dei Mondiali del 1962 in Cile, è in cerca di un nuovo tecnico. Con un inaspettato colpo di fantasia i mammut della Federazione decidono di offrire l’incarico di Commissario tecnico a Edmondo Fabbri. Il posto è di prestigio e c’è la prospettiva di poter lavorare per quattro anni in vista dei Mondiali del ’66, ma i soldi della Federazione sono spiccioli in confronto a quanto promesso dall'ingaggio di Moratti. Fabbri accetta l’incarico alla nazionale, ma la ferita della bocciatura all'Inter brucerà a lungo e segnerà i futuri rapporti tra la squadra nerazzurra e il tecnico romagnolo.

L’avventura di Fabbri sulla panchina azzurra comincia nel novembre del 1962 al Prater di Vienna, dove una doppietta di Pascutti regala una storica vittoria sull'Austria attesa da 35 anni. Inizio migliore non poteva esserci. Quelli sono anche gli anni della “grande Inter” che detta legge con il cosiddetto “gioco all'italiana”, tutto difesa e contropiede; la nazionale di Fabbri invece gioca un calcio diverso, votato alla manovra e imperniato su uomini di grande tecnica individuale. Buona parte della critica, con Gianni Brera in testa, invoca la convocazione del blocco difensivo interista, mentre Fabbri stravede per gli uomini dai piedi buoni: Fogli, Bulgarelli, Mazzola, Rivera sono i giocatori su cui viene costruita la squadra italiana. E i risultati gli danno ragione. La marcia di avvicinamento ai Mondiali è a dir poco trionfale: 6 - 1 alla Bulgaria, 1 - 0 all'Austria, 3 - 0 all'Argentina e 5 - 0 al Messico nell'ultima amichevole di preparazione. L’Italia vola in Inghilterra con il vento in poppa e con grandi aspettative di riscattare le tante delusioni patite dal calcio italiano dopo i due trionfi del 1934 e del 1938.

La prima partita del Mondiale inglese va bene e gli azzurri battono il Cile 2 - 0, ma la sconfitta per 1 a 0 con l’Unione Sovietica è il primo campanello d’allarme. Il passaggio del primo turno di qualificazione è legato alla terza partita del girone contro la Corea del Nord, incautamente ribattezzata “una squadra di Ridolini”. Comunque all'Italia basta un pareggio. Nei giorni che precedono la partita vengono fuori tutti i limiti caratteriali di Fabbri, che chiaramente non regge la tensione. È davanti all'appuntamento decisivo della sua carriera. Sa di avere in mano un’ottima squadre e un buon risultato a quei Mondiali vorrebbe dire la consacrazione finale per lui, alla faccia di tutti i suoi critici. È nervoso e irascibile e quel che è peggio trasmette la sua insicurezza ai giocatori. Ha un piano prestabilito in testa e non accetta il minimo contrattempo. Bulgarelli ha un ginocchio fuori uso e lo fa presente, ma Fabbri non sente ragioni, non vuole rinunciare al suo regista e praticamente lo obbliga a giocare.

La Corea

Middlesbrough, 19 luglio 1966, ore 20.30, Italia e Corea del Nord scendono in campo: è il giorno del giudizio per Edmondo Fabbri. Nella prima mezz'ora gli attaccanti italiani falliscono almeno tre clamorose palle-gol; brutto segno. Poi al 37’ il ginocchio di Bulgarelli cede di schianto e il giocatore è costretto a uscire. Non esistono ancora le sostituzioni e gli azzurri rimangono in dieci. Passano 4 minuti e al 41’ il dentista Pak Doo-Ik trafigge Albertosi con un diagonale da fuori area. Nel secondo tempo l’Italia spreca ancora occasioni su occasioni per raggiungere quel pareggio che ci qualificherebbe e così al fischio di chiusura la frittata è fatta. Siamo eliminati al primo turno. È “la Corea”. Una sconfitta che travalica i confini calcistici per diventare un tòpos della memoria collettiva del nostro Paese e va a fare il paio con la disfatta di Caporetto.

Di ritorno dalla "Corea", all'aeroporto di Genova
Nella spedizione italiana è il panico totale. Le critiche della stampa sono subito feroci e si preannunciano forti contestazioni dei tifosi. Nonostante il rientro in Italia venga spostato a Genova, considerata più periferica, una folla di tifosi inferociti accoglie gli azzurri a suon di pomodori e ortaggi vari. Di quella notte resta indelebile una foto in bianco e nero con Fabbri appena sceso dall'aereo. Ha un’espressione sconvolta, impaurita, non sa cosa lo aspetta, sembra il reduce di una catastrofe.

In quei giorni Fabbri è un uomo solo, vede nemici dovunque e si mette in testa di essere vittima di un complotto ordito dai medici della nazionale, che avrebbero drogato i giocatori con delle misteriose fialette rosa. Le fialette non sono un’invenzione, solo che erano normalissimo ricostituente, ma Fabbri è sordo alla ragione e cieco all'evidenza e va avanti a testa bassa contro i mulini a vento. Qualcosa dentro di lui ha fatto crack. Se amate i romanzi del grande Henry James sapete di cosa sto parlando; di quelle crepe che si aprono una volta per tutte nell'animo di tanti protagonisti dei suoi libri. Sono come i tagli dei quadri di Fontana; ferite nette, definitive, che non si rimargineranno mai più.

L’Italia è pur sempre la patria del melodramma e il passo dalla tragedia alla farsa è breve. Fabbri sprofonda nel grottesco. Qualche settimana dopo, una sera Sandro Mazzola mentre è in vacanza viene avvertito che qualcuno lo sta cercando. Esce dall'albergo e nel parcheggio trova Fabbri sdraiato sul sedile posteriore di una macchina. Si nasconde in un impermeabile con il bavero alzato anche se siamo in piena estate. È andato fino a lì per cercare di convincerlo a firmare un documento che denuncia il fantomatico complotto. Mazzola lo guarda allibito e lo invita a tranquillizzarsi e a tornare a casa. Un consiglio più che sensato, solo che Fabbri lo prende alla sua maniera e per alcuni mesi si barrica letteralmente nella sua casa di Castel Bolognese per paura di incontrare giornalisti o tifosi.

Anni dopo, con il distacco del tempo, tutta quella vicenda verrà vista con il giusto equilibrio. Intanto scopriremo che il famoso Pak Doo-Ik non si era mai sognato di fare il dentista. A parte questo, lo stesso Fabbri ammetterà di essere arrivato alla panchina azzurra troppo giovane e senza alcuna esperienza internazionale. E poi diciamolo forte e chiaro: niente è più aleatorio del calcio e quella con la Corea era una partita maledetta. Sarebbe bastato un gol per cambiare tutti i giudizi e le sentenze successive, e perché il destino di quella partita, della nazionale e del suo allenatore fosse diverso.

A San Siro, insieme al Paròn, sul declivio della carriera
Fatto sta che dopo la Corea tutti scansavano Fabbri nemmeno fosse un cane rognoso. A farlo riemergere dall'oblio fu il Torino che lo richiamò in panchina. Con i granata Fabbri tornò a dimostrare che sapeva di calcio e che era un signor allenatore, vincendo la Coppa Italia nel 1968 e arrivando quarto in campionato, miglior piazzamento del Torino dai tempi della sciagura di Superga. Poi il trasferimento al Bologna e nuova Coppa Italia. Quegli anni furono un parziale riscatto professionale, ma il coro di sfottò “Corea, Corea” continuò per parecchio tempo a perseguitarlo negli stadi italiani. Fabbri ha allenato fino agli inizi degli anni Ottanta in varie piazze. Quando nessuno lo chiamava se ne stava a Castel Bolognese a coltivare le sue vigne. Con grande dignità non sbraitava per avere un ingaggio e girava al largo dai giornalisti. L’impressione che dava era quella di un gentiluomo, di un signore, ma anche di un uomo bruciato dentro.

Edmondo Fabbri muore l’8 luglio del 1995. Ai funerali partecipano molti suoi ex giocatori, soprattutto del Mantova. Tra gli altri c’è anche Arrigo Sacchi a cui uno dei figli di Fabbri dice parole che sono la migliore conclusione per questa storia: “Anche a distanza di tanti anni, papà non è mai riuscito a superare il trauma della Corea”.

Kalz