"Matt Busby's presence will always be at Manchester United. He is Manchester United"
(Bobby Charlton)
Wikipedia (inglese) | Profili: Spartacus Educational - MUTD - The Busby Way - Daily Mail - The Indipendent
Il ritiro: The Guardian
"A Matt Busby è toccata l'impresa più struggente ed esaltante, quella di costruire una grande squadra, vedersela distruggere sulla pista dell'aeroporto di Monaco nel '58 e rifarne un'altra ancora più grande, che nel '68 avrebbe vinto la finale della Coppa dei Campioni. Erano il suo secondo e terzo United: il primo l'aveva costruito negli anni '40. Aveva cuore, fermezza, magia. E' stato un uomo antico, la foto della sua firma come manager del Manchester, il 19 febbraio '45, lo vede in uniforme, la guerra doveva ancora finire. E si giocava con la tribuna danneggiata dai bombardamenti, in quello stadio che ora vogliono ribattezzare con il suo nome.
E' stato un manager inventivo, senza regole, senza schematismi. Premiò con 3 sterline il passaggio del turno in Coppa dei Campioni contro l'Atletico Bilbao, nel '57, con un 3-0 che celebrò al top il suo amato football d'attacco. Ma non esitò a pagare al Torino 115.000 sterline per Denis Law, un transfer record allora per il calcio inglese, un'altra pedina del 'terzo United', quello di Bobby Charlton.
Ma era più dello United, più della stessa Manchester, così lo hanno pianto. Fu il primo manager a iniziare una politica sistematica verso i giovani, formando quei 'Busby Babes' cui toccò un destino insolito, la fortuna e la sventura di giocare e morire per lui. Furono in otto, con un'età media di 21 anni, a rimanere sull'asfalto di Monaco. Fu leader e psicologo. Il suo capolavoro? Quando andò a riprendere a Belfast il 17enne George Best, ammalato di nostalgia, e riuscì a riportarlo in squadra. Busby considerò sempre Best il suo colpo più riuscito e al ragazzino irlandese riuscì di fare breccia nelle emozioni di un vecchio. Fu un connubio straordinario, per quanto Busby rappresentava la qualità del calcio e dei rapporti umani e Best invece le genialità e le sregolatezze, che lo portavano dalle pagine sportive alle prime pagine dei giornali. Ma Busby non era bigotto e sapeva che, del proprio sogno, Best era parte essenziale da amare".
[Corrado Sannucci, "La Repubblica", 22 gennaio 1994]