In morte di João Sal­da­nha

Il 12 luglio 1990, a Roma, si spegneva João Sal­da­nha. Fu allenatore della Seleçao per pochi mesi, quelli che precedettero Mexico '70. Per motivi soprattutto extra-calcistici, dovette lasciarla in anticipo. Ma da tutti ne sarà riconosciuto l'artefice. 

Matteo Patrono
Saldanha, il calcio è una scelta di campo

Quando João Sal­da­nha si addor­menta per sem­pre a Roma, in un letto d’ospedale, il 12 luglio 1990, il comu­ni­smo è appena morto. Nove mesi prima è caduto il muro di Ber­lino, sotto il peso della sto­ria. In Ita­lia, la Ger­ma­nia riu­nita vince i mon­diali di cal­cio supe­rando l’Argentina 1–0. La finale Saldanha non fa in tempo a vederla: rico­ve­rato per una pol­mo­nite una set­ti­mana prima, segue in tv la semi­fi­nale tra tede­schi e inglesi. La sua ultima par­tita. È un gior­na­li­sta colto, tagliente, popolarissimo, un’enciclopedia vivente del cal­cio bra­si­liano, com­men­ta­tore “real­mente tec­nico” di gior­nali, radio e tv. anche un vec­chio comu­ni­sta dagli occhi ter­ri­bili che sognava di cam­biare il mondo e che, per cam­biarlo, il mondo l’aveva girato. Rac­con­tando, spa­rando, finendo in pri­gione. Alle­nando il Bota­fogo e per 13 mesi anche la nazio­nale bra­si­liana, quella che avrebbe vinto i mondiali di Mes­sico ’70, in finale con­tro l’Italia, gra­zie a una sua intui­zione: far gio­care in attacco quat­tro numeri dieci (Pelè, Tostao, Jair­zi­nho e Ger­son). Con Zagallo in pan­china, non lui. Rimosso per volontà dell’ammiraglio Gar­ra­stu Medici, pre­si­dente della Repub­blica. Al Poli­cli­nico di Roma, la sera del 4 luglio, si fa por­tare una mac­china da scri­vere e tic­chetta l’ultimo arti­colo. Saluta il successo della Ger­ma­nia sull’Inghilterra ai calci di rigore come la par­tita più bella del tor­neo. Riserva l’ultimo impeto del suo cuore affa­ti­cato alla Sele­cão, scon­fitta da Mara­dona nei quarti di finale, causa “stu­pi­dità side­rur­gica” del ct ver­deoro, Laza­roni. Quindi entra in coma.

Avven­tu­roso, san­gui­gno uomo di fron­tiera e di assalto, João Sal­da­nha è una delle figure che hanno get­tato le basi della società demo­cra­tica bra­si­liana capace di uscire dalla dit­ta­tura mili­tare come laboratorio politico-sociale del con­ti­nente latino-americano e tra­sfor­marsi poi in potenza emer­gente del XXI secolo, prima let­tera dei Brics. Nella sua vita folle, pas­sio­nale, degna di un film neo­rea­li­sta, si può leg­gere in retro­spet­tiva il cam­mino del Bra­sile con­tem­po­ra­neo, da Getù­lio Var­gas fino a Lula, ed è bello in fondo pen­sare che il movi­mento di pro­te­sta sociale che la scorsa estate ha invaso le strade bra­si­liane e che in que­sto mese rischia di met­tere a soq­qua­dro il Mon­diale e la quin­tes­senza dell’identità bra­si­liana, il cal­cio, debba qual­cosa anche a quest’uomo che fu coscienza cri­tica e voce di libertà durante tutta la dit­ta­tura. Sal­da­nha era un grande affa­bu­la­tore capace di rac­con­tare sto­rie, di costruire imma­gini, neo­lo­gi­smi, di inven­tare la nar­ra­zione – per­fino quella della vita vis­suta — senza tante distin­zioni tra il reale e il sur­reale di tanta let­te­ra­tura ibe­roa­me­ri­cana. Si appro­priava di sto­rie rac­colte per strada, le reim­pa­stava a suo pia­ci­mento, ne diven­tava il pro­ta­go­ni­sta e le condivideva con la gente attra­verso i mezzi di infor­ma­zione. Mischiando cal­cio e poli­tica, le sue due grandi pas­sioni (insieme al samba e alle donne). Aveva un carat­te­rac­cio, ma denso di cari­sma e una capa­cità innata di comu­ni­care. Fumava 4 pac­chetti di Con­ti­nen­tal al giorno, girava in Volk­swa­gen e maneg­giava con poche remore una pic­cola cali­bro 32 a canna corta, o fer­ri­nho. Si sposò 4 volte e attra­versò l’Atlantico più di cento, per lavoro e in mis­sione per conto del Par­tito comu­ni­sta brasiliano (Pcb). Soste­neva di aver assi­stito a ogni sin­gola edi­zione dei mon­diali di cal­cio dal 1934 in poi, quando accom­pa­gnò la madre in Ger­ma­nia per un’operazione all’intestino e prese la via dell’Italia dopo aver letto sui gior­nali che lì gio­cava il Bra­sile. Fu la prima di molte visite che avrebbe fatto in Ita­lia nel corso della sua rocam­bo­le­sca vita.

Sal­da­nha nasce il 3 luglio del 1917, quasi in con­tem­po­ra­nea con la rivo­lu­zione bol­sce­vica, terzo di 5 figli di una fami­glia di fazen­dei­ros del Rio Grande del Sud. Scorre san­gue misto e guer­riero nelle vene di João che cre­sce ascol­tando den­tro casa rac­conti di guerre, rivo­lu­zioni, pistole. Il pro-zio materno aveva gui­dato la ricon­qui­sta del Rio Grande do Sul ai danni della Boli­via, il tri­sa­volo paterno era un cau­di­lho che aveva libe­rato l’Uruguay. João viene al mondo sulle terre che erano state tea­tro delle bat­ta­glie di Gari­baldi gua­da­gnan­do­gli l’appellativo di “Eroe dei Due mondi”. Ma non vi è cer­tezza sulla sua città natale: Ale­grete, Ibi­ro­caì, la capi­tale Porto Ale­gre o Tacua­rembò. Il papà Gaspar, avvo­cato, appog­gia il golpe di Var­gas e nel ’31 tra­sfe­ri­sce la fami­glia dalla “fron­tiera” alla capi­tale Rio de Janeiro, pro­prio men­tre sul Cor­co­vado issano il Cri­sto Reden­tore. A 14 anni João sco­pre la sab­bia di Copa­ca­bana e diventa tifoso del Bota­fogo, domi­na­tore asso­luto del campionato carioca. Non si perde un Car­ne­vale e gli amici lo ribat­tez­zano Fred Astaire per l’eleganza, il capello impo­ma­tato e il fisico asciutto (qual­cuno pure John Wayne per­ché è un gau­cho sbruf­fone). Entra nelle gio­va­nili del club alvi­ne­gro dove i gio­ca­tori a quel tempo si alle­na­vano più a samba e capoeira, l’arte marziale-danza afroin­di­gena, che a cor­rere e fati­care. Sal­da­nha però è un figlio di buona bor­ghe­sia, non manca d’iscriversi alla facoltà di Legge. È qui che entra in con­tatto col Par­tito comu­ni­sta diretto da Luis Car­los Pre­stes, al quale ade­ri­sce appena 18enne. Nel ’37 Var­gas abo­li­sce il par­la­mento e Sal­da­nha par­te­cipa agli scon­tri con la poli­zia, recluta qua­dri e vince cam­pio­nati gio­va­nili di cal­cio e basket. Appro­fit­tando dei tor­nei inter­na­zio­nali col Bota­fogo, il par­tito lo inca­rica di rac­co­gliere fondi per i com­pa­gni in esi­lio e gli affida denunce poli­ti­che da dif­fon­dere in Europa. La sua car­riera da cal­cia­tore fini­sce nel ’39 per un infor­tu­nio alla cavi­glia, ma resta al Botafogo come inter­prete per l’allenatore uru­gua­gio Ondino Vieira e così rico­min­cia a viag­giare. Rac­con­terà che il 6 giu­gno del ’44 vive il D-Day in presa diretta al fianco del gene­rale Mont­go­mery ma anche gli amici più stretti la con­si­de­rano una bou­tade. Passa per certo alcuni mesi a Parigi, in una stan­zetta a Mont­mar­tre stu­diando geo­gra­fia ed eco­no­mia. Dopo la fine della guerra, trova lavoro presso un’agenzia di stampa che cerca gio­vani repor­ter. Il primo inca­rico è una serie di repor­tage sulle città distrutte dal con­flitto e sui campi di con­cen­tra­mento nazi­sti: visita Dachau, Ausch­witz, Tre­blinka, si spinge fino a Kiev e Stalingrado.

Quando torna in Bra­sile, il Pcb è uscito dalla clan­de­sti­nità e Sal­da­nha ini­zia a scri­vere su Folha do Povo; diventa respon­sa­bile cul­tu­rale dell’Unione della gio­ventù comu­ni­sta. Il Dipar­ti­mento dell’ordine politico-sociale (Dops) lo inse­ri­sce nella lista nera dei sov­ver­sivi e lo arre­sta per la prima volta nel ’47 al ter­mine di un comi­zio ille­gale a Machado. Il Bota­fogo gli viene in soc­corso, offrendogli il ruolo di diret­tore tec­nico del club: João vince subito il cam­pio­nato carioca ma poi al Con­gresso bra­si­liano per la Pace prende a sediate il capo della poli­zia Cecil Borer. Scop­pia una sparatoria, un pro­iet­tile s’infila nel pol­mone destro di Sal­da­nha e lui è costretto a fug­gire dall'ospedale dove è pian­to­nato dalla poli­zia. Dopo la con­va­le­scenza, con l’identità di João Souza, viene man­dato a orga­niz­zare il sin­da­cato a San Paolo, poi alla scuola qua­dri di Praga, infine a Pechino con la Tran­si­be­riana per il primo anni­ver­sa­rio della rivo­lu­zione cinese. Si fa una foto con Mao, quindi è inviato di guerra in Corea dove rac­conta i danni delle armi bat­te­rio­lo­gi­che ame­ri­cane. Di ritorno in Bra­sile guida la guer­ri­glia dei sen­za­terra nel Paranà e coor­dina lo scio­pero dei 300mila di San Paolo: lo chia­mano a par­lare nelle fab­bri­che e a mediare tra sin­da­cato e governo. Quando Var­gas si sui­cida, João è al suo capez­zale, non si sa bene come, a rac­co­gliere le ultime parole del dit­ta­tore: “amni­stia per i comunisti”.

Nel ’57 gli affi­dano pure la pan­china del Bota­fogo, la squa­dra degli intel­let­tuali e dei super­sti­ziosi, con un trio for­mi­da­bile com­po­sto da Gar­rin­cha, Didì e il pas­si­sta di samba Nil­ton San­tos. Sal­da­nha dise­gna un unico schema, «palla a Gar­rin­cha e tutti all’attacco». Però quando gli ven­dono Didì al Real Madrid, saluta e tra­smi­gra a “Radio Nacio­nal” come spalla tec­nica del radio­cro­ni­sta. Usa un lin­guag­gio sem­plice e popo­lare, inventa espres­sioni come «zona della cico­ria» (l’area di rigore dove l’erba è più verde e la palla scotta) e o mapa da mina, la mappa della miniera che ogni buon regi­sta deve indi­care ai com­pa­gni. Sal­da­nha è una bus­sola per la gente anche in tv, e pub­blica un libro, Os sub­ter­rã­neos do fute­bol (omag­gio ai Sot­ter­ra­nei della libertà di Jorge Amado), nel quale parla di doping, raz­zi­smo, imbro­gli e omo­ses­sua­lità del calcio.

Den­tro il micro­fono del Mara­canã João urla il suo sde­gno con­tro il golpe mili­tare del ’64, allora ripara in Inghil­terra per i Mon­diali del ’66 ma al suo ritorno ne com­bina una memo­ra­bile. Prima fa a pugni in tv col pre­si­dente del Bangu, un ban­chiere in odore di mafia e scom­messe, poi il giorno dopo prende a pisto­let­tate Manga, il por­tiere del Bota­fogo, accu­sato di essersi ven­duto la finale del cam­pio­nato col Bangu. “Vaga­bondo infame bec­cati que­sta”, lo sen­tono inveire men­tre spara per aria di fronte al mal­ca­pi­tato. Se la cava nono­stante l’accusa di ten­tato omi­ci­dio e Vini­cius de Moraes gli affida una parte nel cele­bre film Garota de Ipa­nema dove inter­preta il padre piccolo-borghese della famosa ragaz­zina di Ipa­nema che vuole sco­prire l’amore.


All’improvviso arriva il colpo di scena, impen­sa­bile per lui stesso: il 4 feb­braio 1969, Sal­da­nha diventa alle­na­tore della nazio­nale ver­deoro. Un gior­na­li­sta spor­tivo ama­tis­simo dalla gente che nono­stante una tem­pe­stosa mili­tanza comu­ni­sta viene chia­mato a risol­le­vare le sorti della Sele­cão nel pieno della dit­ta­tura mili­tare. João Have­lange, capo della Fede­ra­zione bra­si­liana, decide di coop­tare il nemico al potere e nella sor­presa gene­rale gli affida la nazio­nale. Alla con­fe­renza stampa di pre­sen­ta­zione, davanti agli ex col­le­ghi, scrive sulla lava­gna i nomi dei tito­lari che avreb­bero gio­cato i mon­diali del ’70 in Mes­sico e risolve subito l’eterno dilemma “Tostao o Pelè?”. In campo tutti e due più altri due funam­boli d’attacco. «La mia squa­dra sarà com­po­sta di 11 uomini dispo­sti a tutto. Per la glo­ria o per la fossa» è il suo motto. Infatti copre le fughe al night dei gio­ca­tori e chiede al governo un decreto per uma­niz­zare il cal­cio bra­si­liano: meno par­tite e più spet­ta­colo. In pochi mesi vince tutte le gare di qua­li­fi­ca­zione ai mon­diali (22 gol in 6 par­tite, solo 2 subiti) resti­tuendo a un popolo afflitto da ter­ri­bili spe­re­qua­zioni sociali l’allegria del futebol-orgoglio, depressa dopo il fia­sco ai mon­diali inglesi del ’66. Il dram­ma­turgo Nel­son Rodri­gues lo ribat­tezza João sem medio, João senza paura, “un guer­riero più focoso del drago di san Gior­gio capace di gui­dare il Bra­sile al tricampeao in mezzo a quella selva di gang­ster che è una coppa del mondo”.


Tre mesi prima del cal­cio d’inizio in Mes­sico, viene però desti­tuito per ordine del gene­rale Medici, pre­si­dente della Repub­blica, “il più grande assas­sino della sto­ria bra­si­liana” secondo Sal­da­nha. Un altro colpo di scena, di segno oppo­sto: lo silu­rano soste­nendo che l’alcool e il suc­cesso gli hanno dato alla testa. Accuse: ha minac­ciato con la pistola l’allenatore del Fla­mengo, ha stra­volto la squadra per fare espe­ri­menti, ha fatto acco­mo­dare in pan­china per­sino Pelé. Sareb­bero baz­ze­cole nel Bra­sile di allora per un con­dot­tiero del pal­lone, ma la giunta mili­tare non gra­di­sce le sue interviste a Le Monde sulle tor­ture e i pri­gio­nieri poli­tici e lo cir­conda di spie. Medici gli chiede di con­vo­care in nazio­nale l’attaccante Dario, bom­ber impla­ca­bile col sopran­nome di Dadà Mara­vi­lha. «Il signor Medici pensi a orga­niz­zare i suoi mini­steri che alla squa­dra ci penso io», è la sua rispo­sta per diret­tis­sima. Quando perde con l’Argentina e annun­cia di voler far ripo­sare Pelé per un problema all’occhio, Have­lange gli dà il benservito.

Per il gau­cho trat­tasi chia­ra­mente di com­plotto. «Per­ché mi hanno cac­ciato è molto facile capirlo. Più dif­fi­cile è spie­gare per­ché mi abbiano assunto». Il vero motivo del suo allon­ta­na­mento è un altro: Sal­da­nha usa l’enorme potere media­tico del suo inca­rico per con­te­stare il regime. Capi­sce che il cal­cio non è l’oppio dei popoli come pen­sano gli intel­let­tuali, ma può diven­tare uno stru­mento di eman­ci­pa­zione sociale e di pro­pa­ganda poli­tica. La sua lezione la capi­ranno in tanti, decenni più tardi: per­lo­più, quelli che aggior­nando il prin­ci­pio del panem et cir­cen­ses ne faranno un ruti­lante circo d’evasione. Sal­da­nha dal posto di sele­zio­na­tore denun­ciava ai gior­nali stra­nieri la repres­sione e le mise­rie del Bra­sile ini­quo. Men­tre è in Mes­sico con la nazio­nale, incon­tra Pablo Neruda. Mette in ombra i gene­rali. «Il cal­cio non aiuta le dit­ta­ture. Mus­so­lini ha vinto due mon­diali ed è finito a testa in giù. La mia pre­senza disin­ne­sca quella del gene­rale Medici, ai mon­diali gli unici eroi saranno i calciatori». Non andò esat­ta­mente così. Il Bra­sile più bello di sem­pre, costruito da lui, viene por­tato in trionfo da Zagallo (un suo ex gio­ca­tore), con­qui­sta la terza Coppa Rimet in finale con­tro l’Italia di Riva, Rivera e Maz­zola e la con­se­gna a Medici. Il quale annun­cia tutto fiero: «Nes­suno più fer­merà il Bra­sile». Nono­stante le pres­sioni diplo­ma­ti­che per non farlo entrare, in Mes­sico Sal­da­nha ci va comun­que, da tele­cro­ni­sta, e saluta il trionfo dei suoi ragazzi come la vit­to­ria dell’arte. A ren­dere omag­gio al suo lavoro ci pensa il poeta Car­los Drum­mond Andrade dedi­can­do­gli i versi finali di Com camisa, sem camisa. “Da oggi in poi sen­tirò la Coppa / Tu, sei d’accordo, fra­tel­lino mio? — Certo./Smetto di inse­gnare a João Saldanha / quel che lui sa più di me: l’astuzia / l’esperienza, la grinta, il sentimento/dello sport, nel dolce e nel violento, / insomma, tutto quel che d’intrepido gli invidio. / Senza di lui la vacca resta a secco. / Se ogni tifoso si mette a fare il tecnico, / il cal­cio diventa un pirotecnico / show di petardi e saltarelli/che non scop­piano. Quante migliaia di Pelé / ho nel taschino del gilè (senza / gilè, è chiaro)”.


Defe­ne­strato, Sal­da­nha torna a fare il gior­na­li­sta e l’agitatore semi-clandestino. In que­sta veste brinda al requiem del regime mili­tare e vede ger­mo­gliare quel fronte di sen­za­terra, ope­rai, ex-guerriglieri, mili­tanti poli­tici e sin­da­ca­li­sti con cui è stato gomito a gomito e sem­pre legato come ai colori del Bota­fogo. Nel suo senso della fedeltà mili­tante c’è anche la scelta di con­ti­nuare a girare il mondo da gior­na­li­sta. Così anzi­ché can­di­darsi col Pcb, nell’82 va in Spa­gna per seguire la meravigliosa big band di Zico, Fal­cão e Socra­tes, otti­mi­sta più del solito visto il talento puris­simo di una squa­dra final­mente offen­siva come quella del ‘70. Si con­vince pre­sto però che Tele San­tana è un incapace e quando il Bra­sile cade sotto i colpi di Paolo Rossi, lui non ha pietà. “Cam­pioni morali? Cam­pioni di stu­pi­dità sem­mai. Con la qua­lità dei nostri magni­fici gio­ca­tori, que­sta coppa si poteva vin­cere a mani basse. Pur­troppo man­chiamo di mode­stia e non abbiamo idea di come si occupa un campo di cal­cio. Abbiamo perso, pazienza” (una parte della raman­zina in diretta dal Sarria di Bar­cel­lona si trova su you­tube, asso­lu­ta­mente stra­cult). Viene arre­stato per l’ultima volta nell’87, quando già sof­fre di seri pro­blemi ai pol­moni: col suo revol­ver tira giù la vetrina di un negozio che ha trat­tato male la sua segre­ta­ria. Alle Olim­piadi di Seul col­lassa per insuf­fi­cienza respirato­ria e pochi mesi dopo aver visto cadere il muro di Ber­lino e bene­detto la Pere­stro­jka di Gor­ba­chov, i medici gli dia­gno­sti­cano 3 mesi di vita. Lui allora prende la sua bom­bo­letta di cortisone e parte alla volta dell’Italia per assi­stere agli ultimi mon­diali della sua vita, quelli del ‘90. Li segue da un letto d’albergo dove è costretto dalla malat­tia e dove ha attrez­zato un pic­colo stu­dio tele­vi­sivo. Qui riceve la visita dei diri­genti del Pci, fre­sco di scio­gli­mento. La pas­sione poli­tica è viva fino all’ultimo, chiede numi sulla svolta di Occhetto, ricorda l’amicizia con Enrico Ber­lin­guer, le riunioni del dopo­guerra che si chiu­de­vano con la strofa “Ban­diera rossa cla­mor divino, viva Togliatti viva Sta­lino”. Gli ita­liani li cono­sce bene, per­ché nel Rio Grande do Sul gli emi­grati ita­liani hanno fatto for­tuna come agrari, indu­striali, com­mer­cianti. In una pre­mo­ni­trice inter­vi­sta al Manifesto ripe­scata nei nostri archivi, Sal­da­nha mette sull’avviso i navi­ganti del cam­pio­nato più bello del mondo, sul quale è appena spun­tato il sole ros­so­nero del Milan ber­lu­sco­niano. “L’Italia deve stare par­ti­co­lar­mente attenta per­ché ha creato un mondo del pal­lone che può esplo­dere in qual­siasi momento, togliendo agli avver­sari i migliori gio­ca­tori e creando una men­ta­lità com­mer­ciale osses­siva, che con­ta­gia anche i tifosi. I pali della porta si dipin­gono di bianco per farli risal­tare ma adesso c’è tanta pub­bli­cità che non si vede più dove comin­cia e fini­sce la rete”. Il 3 luglio João festeg­gia il suo 73esimo com­pleanno, dopo un pic­colo party Italia-Argentina è la sua ultima tele­cro­naca. Il 4 lo rico­ve­rano al Poli­cli­nico per una crisi respi­ra­to­ria. Spe­di­sce il pezzo su Germania-Inghilterra e chiude la sua esi­stenza. In coma far­ma­co­lo­gico, lo tra­sfe­ri­scono al Sant’Eugenio dove si spe­gne defi­ni­ti­va­mente in una calda serata d’estate.

Lo sep­pel­li­scono a Rio, al cimi­tero São João Bati­sta, con la ban­diera del Pcb, del Bota­fogo e della scuola Por­tela. A tenere la bara ci sono Zagallo, Brito e Car­los Alberto Tor­res. Por­tano il suo nome un viale e un cen­tro culturale-sportivo sull’isola di Marica, un col­le­gio e il campo d’allenamento del Bota­fogo, una via a Curi­tiba, una a Porto Ale­gre, la sala stampa del Mara­canã, la sala del sin­da­cato dei gior­na­li­sti e un caffè di Rio, la pista cicla­bile che col­lega Ipa­nema e Copa­ca­bana. Rico­no­scendo a João Sal­da­nha, uomo di di cal­cio, sala mac­chine e bar­ri­cata, di esser stato uno dei pio­nieri del Bra­sile moderno.