30 dicembre 2014
Il Cholo ha vinto una Liga memorabile, certo approfittando dell'adattamento di Ancelotti al campionato spagnolo e della flessione marcata del Barcellona (a digiuno di trofei per la prima volta dal 2008). Ma è stata una vittoria di grande merito per almeno due motivi: le avversarie avevano dominato le ultime nove edizioni e i Colchoneros si sono mostrati capaci di spezzare il duopolio plutocratco; il successo è il frutto di una continuità mirabile avviata da Simeone con i trofei europei del 2012 e con la Coppa del Re nel 2013, e corroborata dalla Supercopa de España dell'estate trascorsa. Senza dimenticare il percorso eccezionale in Champions League e il trofeo sfuggito di mano solo a qualche istante dalla fine. Sarebbe stata un'apoteosi. Ma l'avvio positivo della stagione in corso, con l'attuale terzo posto in Liga (con +1 in media inglese) e il primo nel girone di qualificazione di CL, dimostra che Simeone ha trasmesso all'ambiente una mentalità vincente, nonostante l'ampio ricambio della rosa (dei finalisti di Lisbona sono partiti Courtois, Filipe Luís, Diego Costa e David Villa). La squadra ha ormai fatto propria una chiara identità di gioco, fondata sul pressing, sulla velocità del contrattacco, sulla compattezza dei reparti, di chiara derivazione sacchiana. Onore al merito.
Carletto nostro, invece, è ormai Carlo Magno per la stampa e per gli appassionati spagnoli. Ero stato un facile profeta nel pronosticare, al suo arrivo alla Casa Blanca, che avrebbe vinto la Décima [vedi]. In Italia è stato a lungo sottostimato - perlomeno fino alla scorsa primavera - ma Ancelotti ha dimostrato di essere uno dei più grandi allenatori della storia del calcio, vincendo ovunque (in Italia, in Inghilterra, in Francia, in Spagna, in futuro anche altrove, se vorrà) e accumulando un palmarès ricchissimo ad appena 55 anni. Quattro titoli in un anno al Real non li aveva vinti nessuno. Per derivazione sacchiana appartiene anch'egli alla galassia del gioco propositivo: al Milan ha affinato lo schema ad albero di Natale, ma è la duttilità il suo pregio. Soprattutto, sono la gestione dell'ambiente e la capacità di fronteggiare situazioni di tensione societaria gli elementi chiave di successo a fronte di presidenti ingombranti e impazienti. L'obiezione che è facile vincere quando hai giocatori come quelli in rosa al Real è banale quanto erronea: con un parterre analogo José Mourinho ha fallito clamorosamente gli obiettivi, diviso l'ambiente, lacerato lo spogliatoio e se ne è andato non rimpianto. Il merito che è crescentemente riconosciuto a Carlo è proprio quello di avere pacificato il madridismo con la sua pacatezza. Sul piano tattico, probabilmente sta compiendo il suo capolavoro: una mediana di trequartisti incontristi come quella che ha disposto in questa stagione non ha riscontri nella storia: è qualcosa, di per sé, di rivoluzionario nella tradizione del gioco. Vedremo quali saranno i limiti di questo XI, ma "rischiamo" di trovarci di fronte a una squadra destinata a incidere a caratteri epigrafici il proprio nome nelle tabulae.
A confronto di Simeone e Ancelotti, Joachim Löw ha statura diversa, adeguata al ruolo di commissario tecnico più che di allenatore. Ma un campionato del mondo non lo si vince senza merito, e la Germania, in Brasile, lo ha vinto partita dopo partita, non risparmiandosi sofferenze (contro l'Algeria), patemi (in finale) e splendori, come nella semifinale memorabile contro i padroni di casa. Sagace gestore di questa progressione - "good but not great", come ha scritto Brian Glanville - è stato Gioacchino Manicarrotolata: che non è un innovatore tattico ma persegue anche lui l'idea dell'iniziativa di gioco e del possesso non fine a se stesso, giovandosi dell'impianto guardioliano del Bayern e innervandolo nella tradizione atletica e podistica del calcio teutonico. I piazzamenti di eccellenza che la Nationalmannschaft ha ottenuto sotto la sua guida (1° e 3° ai Mondiali, 2° e 3° agli Europei) lo iscrivono di diritto nel "canone" dei grandi Fußballtrainer insieme a Sepp Herberger, Helmut Schön e Franz Beckenbauer. Non desterebbe stupore se dovesse centrare il podio anche a Francia 2016.
Il torneo iridato ha riproposto alla ribalta uno dei grandi santoni, Aloysius Paulus Maria "Louis" van Gaal, fedele interprete della tradizione del "calcio totale" di michelsiana memoria, che fa del lavoro collettivo, della disciplina tattica e della "mentalità aperta" il suo crisma. La duttilità tattica, la capacità di adottare i moduli più adatti alle caratteristiche dei giocatori, lo hanno reso un allenatore vincente. In carriera Re Aloysius ha conseguito risultati adamantini: ha plasmato l'ultimo Ajax vincente a livello internazionale, ha mostrato di saper vincere anche nella orangerie catalana, ha dominato in Baviera, ha fatto rivincere l'Eredivisie all'AZ Alkmaar dopo 28 anni. In più, ha voluto giocare anche una fase finale di un Mondiale. In Brasile ha dato spettacolo, confermando estro e genialità: ha inopinatamente proposto un 3-4-3 vero (con Blind e Kuyt esterni di 4), rispolverando anche le vecchie marcature ad uomo a centrocampo (visto Sneijder seguire Iniesta anche alla toilette); ha tirato fuori dal cilindro dei supplementari contro la Costa Rica il portiere para rigori Tim Krul; ha schiantato i campioni in carica e i padroni di casa; e ha finalmente condotto l'Olanda alla vittoria in una finale e a un torneo iridato senza sconfitte. Ora si è dato alla ricostruzione dello United, scavando dalle fondamenta: il cantiere è in piena attività, ancora avvolto dalla polvere, ma si cominciano a intravvedere alcuni spezzoni dell'edificio. Tra tutti l'arretramento in mediana di Wayne Rooney, che potrebbe consacrarne epicamente la caratura di giocatore "totale". Insieme all'orchestra bavarese di Guardiola - che ha suonato divinamente nella serata autunnale romana di CL - e alla máquina madridista assemblata da Ancelotti, lo United rappresenta, in prospettiva, l'attesa più densa di promesse per i "mendicanti" di bel calcio.
A riempire gli occhi e il cuore è attualmente anche l'Olympique de Marseille, inaspettatamente affidata l'estate scorsa a Marcelo Bielsa, venerabile maestro per i grandi interpreti del calcio internazionale (Pep e Cholo in testa), misconosciuta "macchietta" per il provincialismo italico. I detrattori guardano al palmarès e lo irridono, i devoti ne apprezzano la visonarietà. Nel suo Pantheon, Sacchi e Van Gaal sono i punti di riferimento espliciti nell'alveo della comune geneaologia del calcio totale e offensivo: la corsa continua e il lavoro sulla mentalità aperta dei giocatori sono le sue stelle polari: chi è stato allenato da lui lo adora senza riserve perché è, innanzitutto, un grandissimo maestro di calcio e di vita [vedi]. L'OM di quest'anno è un altro dei suoi capolavori: la rosa è la stessa che ha fallito tutto lo scorso anno, ma gioca ora un calcio bellissimo - forse il più bello a vedersi, come XI, di quest'autunno, così come lo è stato il Liverpool di Rodgers l'inverno scorso. Corsa, sovrapposizioni, contro-contrattacchi, gioco di prima, triangoli negli spazi: un calcio semplicissimo, quasi elementare, a ben vedere, ma di grande effetto. I critici fanno però osservare che l'OM ha perso proprio contro le grandi (Lyon, PSG e Monaco). Il girone di ritorno riproporrà i confronti diretti al Vélodrome, che ribolle di passione e sogna ad occhi aperti. Vedremo. Intanto diamo merito a Bielsa, e continuiamo a goderci lo spettacolo.
Se i cinque summenzionati sono stati a mio avviso i maggiori interpreti dell'annata solare, un bilancio positivo è senz'altro quello conseguito da Josep Guardiola (Meisterschale e DFB Pokal), Manuel Pellegrini (Premier e League Cup), Laurent Blanc (Ligue, Coupe de la Ligue e Trophée des Champions) e Antonio Conte (scudetto dei record e buon avvio con la Nazionale). A tutti è però mancato l'acuto in CL. Da ricordare sono anche le imprese di Unai Emery (Europa League con il Siviglia, partendo dal terzo turno preliminare, lo stesso del'Udinese per intenderci) e di Edgardo Bauza (Libertadores con il San Lorenzo). Menzione speciale per Ramón Díaz, che ha resuscitato il River Plate, portandolo alla vittoria del Final e della Copa Campeonato de Primera División.
Brendan Rodgers aveva assemblato un Liverpool bellissimo fino alla goffa scivolata di Steven Gerrard. La perdita di Suarez, un mercato non azzeccato e l'infortunio di Sturridge non spiegano però del tutto le difficoltà, innanzitutto di bel gioco, della stagione in corso. Analogamente Rudi Garcia ha smarrito per strada la bella Roma del girone d'andata della scorsa stagione. Perplessità riguardano anche Arsène Wenger, il cui grande risultato del 2014 è stato, più che la conquista della FA Cup, lo stupefacente rinnovo per altri tre anni sulla panca dei Gunners. Jürgen Klopp ha vinto ad agosto la DFL-Supercup ma il suo Borussia sembra aver perso, complici anche i molti infortuni in rosa e lo stillicidio di spoliazioni dei migliori giocatori da parte del Bayern, quella magnificenza di gioco, centrata sul Gegenpressing, che lo aveva portato ai vertici tra 2012 e 2013. Fallimentari David Moyes allo United e Gerardo Martino al Barça, e nel nostro orticello anche Walter Mazzarri all'Inter, ovviamente. Non incanta ancora Luis Enrique a Barcellona, ma ha margini di miglioramento anche se forse non di tempo. José Mourinho non vince nulla dall'estate del 2012 e dopo il fallimento di Madrid ha passato una stagione di transizione a Londra, dove pure si era ritrovato in testa alla Premier per qualche settimana. Ha però guidato un mercato estivo tra i migliori e ora si avvia a riconquistare il titolo, non senza esibirsi nel suo campo preferito: la guerriglia verbale contro tutti. Anche nei giorni di festa. Insuperabile.