Roberto Beccantini
Happel, stregò anche Trap
"La Stampa", 16 novembre 1992
Nei cabaret di Vienna lo chiamavano «Ozti»: è il soprannome dato alla mummia scoperta da Reinhold Messner sulla montagna del Similaun, in Alto Adige. Il legittimo proprietario di quei «resti», se tutto va bene, era vissuto 4500 anni fa. Ernst Happel, invece, è mancato alle 18,30 di sabato. Il 29 novembre avrebbe compiuto 67 anni. Venerato come un mahatma, temuto come uno stregone, era il commissario tecnico della nazionale austriaca.
Happel, in carriera, è stato un grande difensore e un grandissimo allenatore. Ha lavorato in Olanda, Belgio, Spagna, Germania, Austria. Ha vinto in tutti i Paesi dov'è stato tranne che nella Penisola iberica.
Happel a San Siro. la notte della sua prima Coppa dei campioni |
La sua specialità consisteva nel battere le squadre italiane. Con il Feyenoord, si sbarazzò del Milan; con il Bruges, eliminò Roma, Milan e Juventus; con lo Standard Liegi, fece fuori il Napoli (del quale fu sul punto di diventare l'allenatore); con l'Olanda, vicecampione del Mondo nel 1978, negò la finale agli azzurri di Enzo Bearzot; e con l'Amburgo, il 25 maggio del 1983, sfilò la Coppa dei Campioni dalle tasche di Boniperti e Trapattoni.
Fu, quello di Atene, il suo capolavoro. Se Magath firmò il gol, Happel procurò carta e penna: piazzò Rolff su Platini, tolse Bastrup dal lato sinistro, sicuro che Gentile l'avrebbe seguito (e difatti lo seguì), sguarnendo così il fianco destro della Juve, che diventò terra di conquista per Magath e Wehemeyer. Una lezione.
Sposato, separato, conviveva con una signora molto più giovane di lui, conosciuta ad Amburgo. A Happel è stato fatale un tumore allo stomaco. Era ricoverato a Innsbruck. Si era sottoposto a sfiancanti cicli di chemioterapia. Aveva perso i capelli. Era precipitato da 80 a 48 chili. Eppure non mollava. Continuava a fumare. Continuava, soprattutto, a occuparsi della nazionale. Più si avvicinava alla morte, e più gli scoppiava dentro un'inesausta voglia di vivere. Aveva prenotato due settimane a Bali. Aveva messo in cantiere, per febbraio, una tournée negli Stati Uniti.
Cinque anni fa era stato operato allo stomaco. Per quanto molti indizi, già allora, portassero a un tumore, Happel si sforzava di trovare alternative meno truci: macché cancro, si tratta di un semplice virus intestinale. Contratto, aggiunse, nell'isola di Madera, durante uno stage con il Tirol Innsbruck. E poi: se sto male è perché nella mia vita sono sempre stato troppo seduto, e mi sono sempre tenuto tutto dentro. Ecco dove ho sbagliato.
Già da una decina di mesi i medici lo consideravano un morto vivente. Se non si fosse chiamato Happel, disse uno dei dottori che lo aveva in cura, lo avremmo già mollato da un pezzo. Agghiacciante. L'orso reggeva al dolore con uno stoicismo che stupiva. Pur di ritagliarsi il week-end fuori della clinica, sopportava tutto. A Parigi, in occasione di Francia-Austria, non ha mai diretto un allenamento. E la sera della partita, si è fatto accompagnare in panchina dopo l'esecuzione degli inni: non voleva togliersi il berretto, non voleva mostrare ai parigini quel suo cranio spelacchiato e smunto.
L'ultima panchina è stata al Prater, il 28 ottobre, per Austria-Israele. Per l'amor di Dio, finita la partita torni subito in clinica, si raccomandarono i medici. Happel si guardò bene dall'esaudirli. Doveva tenere una relazione tecnica agli allenatori della prima divisione austriaca. La tenne. Parlò per un'ora e mezzo. Arzillo. Sorridente. Caricatissimo.
Ieri avrebbe dovuto diramare la lista dei convocati per l'amichevole con la Germania in programma mercoledì a Norimberga. Ormai, da tempo, i destini dell'Austria calcistica si decidevano nella sua stanza d'ospedale. A Norimberga ci sarò, aveva brontolato. A Norimberga non ci sarà. E' spirato sabato, vinto da un male crudele.
E così, dalla cronaca, Ernst Happel passa direttamente alla storia. Delle squadre italiane, soltanto l'Inter di Rummenigge è riuscita a esorcizzarne la diabolica scienza (Coppa Uefa, stagione 1984-'85). E' stato l'incubo di Boniperti: e non solo ad Atene. Anche prima, da giocatore: lo tenne a battesimo in nazionale con un rovinoso 5-1 (Vienna, 1947).
Abile nel non far giocare gli avversari, inaridendone le fonti, era un maniaco della tattica e aveva un debole per il fuori gioco: alla testa del Bruges, fece ammattire la Juve del Trap. E' stato un genio. Con il Feyenoord ha anticipato il gioco totale dell'Ajax. «Mi vien da ridere quando sento parlare di calcio del Duemila, dichiarò un giorno del 1990 a Stefano Bizzotto. Nell'Olanda di venti anni fa si giocava nello stesso identico modo, ve lo dice uno che c'era». Giù il cappello.