Ho lavorato trent'anni con Vittorio Pozzo.
Era il giornalista più famoso del mondo. A Londra ho visto consegnargli una lettera con questo indirizzo: «Vittorio Pozzo Italian manager». Londra aveva allora otto milioni di abitanti. A Tokio gli hanno chiesto interviste non appena è sceso dalla scaletta dell'aeroplano, a Parigi era di casa. Questo è il Pozzo che conoscono tutti, o perlomeno tutti immaginano.
Il Pozzo che ho conosciuto io valeva di più: era un uomo di una inesorabile dirittura morale. Non ha mai scritto una frase di convenienza. Se il giornale gli chiedeva un pezzo che non lo convinceva in pieno, rimaneva qualche istante muto al telefono. «Vedruma poei», rispondeva bruscamente in piemontese. Sapevo già che non se ne sarebbe fatto niente. La questione non rispondeva al rispetto che lui aveva per lo sport. Per nessun motivo l'avrebbe trattata. In compenso se c'era da esprimere idee dure non esitava.
«Pozzo è al di sopra del bene e del male» si diceva in redazione passando in tipografia degli articoli che sapevamo avrebbero suscitato reazioni. Pozzo non temeva. Il suo «credo» era il football, aveva una concezione cosi alta dello sport che non l'avrebbe tradita per alcun motivo.
Lavorare con Pozzo è stato un motivo d'orgoglio; non era facile. Quando era commissario tecnico della Nazionale telefonava talvolta a Roma le convocazioni degli azzurri dal tavolino accanto al mio. Voleva che me ne andassi. «La Stampa» e «Stampa Sera» non dovevano essere avvantaggiate dal fatto che il «numero uno del calcio italiano» era anche giornalista. Divideva con severità i due compiti. Le convocazioni rimbalzavano in redazione attraverso un'agenzia. Pozzo, credo, mi voleva bene, ma non avrebbe mai concesso un favoritismo al suo giovane collega.
Oltre ai suoi articoli l'aiuto che dava consisteva nella sua stessa presenza, nella rete fitta di conoscenze tenute in tutto il mondo in oltre mezzo secolo di attività sportiva. Viaggiando accanto a Pozzo bastava tacere e osservare. Si intervistavano e conoscevano personaggi di primo piano, in ogni nazione. Aveva vinto un'Olimpiade e due campionati del mondo, sapeva di essere a sua volta un personaggio, ma il suo atteggiamento non è mai mutato, come non è cambiata la calligrafia minuta, ordinata, precisa con cui scriveva i suoi articoli.
Lavorava in casa. Nel suo studio. Viveva, inconsapevolmente, come in un museo di se stesso. Un tavolino ingombro di lettere, giornali italiani ed esteri (Pozzo sapeva «ufficialmente» sette lingue, in pratica dieci. Traduceva a prima vista dallo svedese anche le diciture delle vignette umoristiche di sport, ma «lo svedese - osservava - non lo parlo bene»); il cappello da ufficiale degli alpini sempre più polveroso appoggiato su un lampadario; a alle pareti tre enormi fotografie dei suoi azzurri.
E poi la famosa vetrina dei ricordi. In questo mobile, quasi il tempo avesse cancellato il senso delle prospettive, Pozzo conservava con uguale attenzione l'accendisigari offertogli da un atleta, le onorificenze di molti Paesi, la coppa ricevuta dalle mani di Montgomery, i doni di ministri, re e principi, capi di Stato.
Nello studio-museo ho parlato molte volte con Vittorio Pozzo, trattando i problemi del giornale. Ma soprattutto gli ho telefonato. Ogni giorno. «Il pezzo è andato bene?» era la prima domanda. «In direzione non hanno trovato nulla a ridire?». Al massimo una protesta: «Perché l'ève tajame ses righe?».
Sempre lucido, sempre «giornalista». Una sola volta si è commosso. La notte di Superga, quando iI Torino di Mazzola morì e lui passò lunghe ore al Cimitero per riconoscere le salme dei suoi granata, che erano stati quasi tutti azzurri. Ma anche quella sera trovò il tempo per venire al giornale e preparare l'articolo. Piangeva, scriveva; ogni tanto era interrotto dal telefono e lui rispondeva in ogni lingua a chi da lontano gli chiedeva particolari.
Le telefonate quotidiane sono finite solo pochi giorni fa. Voleva andare a Milan-Cagliari. Soltanto al sabato vi ha rinunciato. Era già in ospedale. Pochi lo sapevano. Di Vittorio Pozzo mi è rimasto un libro con la dedica: «In ricordo di tanti anni di lavoro comune». Non una parola di più. Per Pozzo (e per me) è moltissimo.
"La Stampa", 22 dicembre 1968
"La Stampa", 22 dicembre 1968